Quando si affronta un argomento complesso come la mitologia greca, è naturale domandarsi prima o poi: ma i greci credevano davvvero agli Dei?
Una maniera diversa di credere
Oggi siamo abituati a un concetto di “credere” proprio di religioni monoteiste, come il cristianesimo, l’ebraismo o l’islam. “Avere fede” può essere considerato il comportamento alla base stessa di queste religioni, che si fondano su una verità rivelata.
Per un politeista, come gli antichi greci, questo concetto è meno fondamentale: è assai probabile che i greci antichi si fossero accorti che molti miti si contraddicevano fra loro, e che alcune di esse potessero forse essere false.
Tuttavia, gli Dei greci non chiedevano ai fedeli di credere, o di seguire dei comandamenti per raggiungere la salvezza dell’anima. Ciò che loro chiedevano era di essere loro grati, onorando le leggi che garantivano l’ordine del mondo e soprattutto onorando gli stessi Dei.
Il concetto di devozione degli antichi greci e le conseguenze per chi lo infrange, traspaiono sotto moltissimi aspetti della loro storia e della loro mitologia.
La devozione e le feste: dalle orge al teatro, dai sacrifici alle Olimpiadi
La vita religiosa di un greco antico costituiva soprattutto nella partecipazione alle numerose feste che scandivano l’anno.
In onore di questa o quella divinità cui venivano dedicate processioni, sacrifici, rituali e giochi.
Il culto degli dei Olimpici era per lo più celebrato alla luce del sole, con sacrifici pubblici e ogni genere di celebrazione.
Le stesse Olimpiadi nacquero come giochi sacri in onore di Zeus (come ti ho già raccontato qui). Tuttavia, i greci avevano anche dei riti e dei culti più misteriosi o particolari.
Famosissimi sono i culti della fertilità praticati in onore di Demetra ad Eleusi, vicino ad Atene, tanto conosciuti quanto misteriosi poichè vi avevano accesso soltanto gli iniziati, che dovevano giurare di non rivelarne i rituali.
Anche i culti dedicati a Dioniso erano segreti e notturni, praticati soprattutto da donne e con probabilissime connotazioni orgiastiche. Tuttavia, allo stesso Dio venivano dedicate anche celebrazioni diurne, ed è infatti nelle feste dedicate a Dioniso che nasce il teatro.
Nei tre giorni dedicati alla tragedia partecipavano tre autori, e ciascuno doveva presentarsi con una tetralogia di tre tragedie e un dramma satiresco: ad ogni poeta era dedicato un giorno diverso e chi vinceva riceveva un premio.
Sparta e le celebrazioni di Apollo
Tale era l’importanza di alcune di queste feste da influenzare persino il corso della storia, perchè persino le guerre venivano fermate pur di permettere a tutti di partecipare. Assentarsi per un qualunque motivo era visto come un grave sacrilegio.
Nel 490 a.C., ad esempio, gli Spartani si erano impegnati ad affrontare l’invasione persiana di Re Dario I assieme agli Ateniesi. Quando il messaggero giunse di corsa in città per chiedere alle truppe spartane di mettersi in marcia, però, trovò l’intera popolazione intenta a celebrare le feste Carnee in onore del Dio Apollo.
Gli opliti spartani non si mossero per tutte le feste e arrivarono sul celebre campo di Maratona solo quando gli Ateniesi avevano ormai vinto per conto loro.
Il figlio di Dario, Serse, probabilmente prese appunti perchè quando dieci anni dopo volle riprovare ad attaccare i greci, la notizia della nuova invasione giunse ancora durante lo svolgimento delle feste Carnee.
La situazione per Sparta era cosi grave che si affrontò una lunga discussione: interrompere le feste e rischiare cosi di offendere il Dio Apollo, o proseguirle lasciando i Persiani agire indisturbati?
Alla fine, e comunque solo dopo aver consultato l’oracolo di Apollo a Delfi, si decise di mandare il Re Leonida con 300 uomini, lasciando il resto della popolazione in città a concludere le festività.
Sparta dimostrava cosi di non tirarsi indietro, ma preferendo mandare a morte il Re piuttosto che rischiare di offendere un Dio.
Anche se il sacrificio di Leonida divenne leggenda, infatti, saranno poi di nuovo gli Ateniesi a frenare l’avanzata persiana, con la famosa battaglia di Salamina del 480 a.C.
L’hybris, o la presunzione che offende gli Dei
Offendere gli Dei era così impensabile che interromperne le feste era considerato un atto empio, qualcosa la cui gravità era molto chiara agli antichi Greci.
Un gravissimo atto di empietà era però anche commesso da quegli uomini che osassero dimenticarsi di essere inermi davanti ai misteri del Fato, o che si macchiavano della presunzione di non ringraziare gli Dei per la prosperità che gli avevano concesso.
Tale comportamento veniva definito dai greci come Hybris.
Ne è un esempio, nell’Iliade, la presunzione di Agamennone (che non era proprio un santo…) che trattiene per se come bottino di guerra la giovane Criseide, figlia del sacerdote di Apollo, nonostante le innumerevoli ricchezze offerte da quest’ultimo per la sua liberazione.
Questo rifiuto, ovviamente, non porta ad altro che a far imbestialire lo stesso Apollo, che punisce la superbia del Re di Micene scagliando una terribile pestilenza contro l’esercito Greco fino ad obbligare Agamennone a rendere la fanciulla.
Di Hybris, secondo i greci, si macchiano anche gli stessi persiani: nella tragedia di Eschilo, che si chiama proprio “I persiani”, si racconta la sconfitta di questi ultimi dopo la battaglia di Salamina.
La tragedia, che è la più antica a noi pervenuta, è raccontata dal punto di vista degli stessi persiani che realizzano come una tale disfatta sia dovuta alle scelte sconsiderate del sovrano.
Serse è tratteggiato come un sovrano dispotico e incapace di fermare la propria Hybris, in contrapposizione con la democrazia ateniese guidata dalle scelte del popolo.
Come presto degli oracoli giunse, ahimè!, l’esito! Il Dio
Re Dario ne I persiani di Eschilo, 472 a.C.
il successo dei responsi suscitò sul fígliuol mio!
Io speravo che i Celesti ne tardassero l’evento;
ma se tu premi, lo stesso Nume affretta il compimento.
Ecco, un fonte di malanni sugli amici ora s’è aperto:
Il figliuol mio lo dischiuse, baldanzoso ed inesperto,
che pensò dell’Ellesponto come un servo il sacro fiume
porre in vincoli, e del Bosforo le fluenti sacre al Nume;
e stringendo ferrei ceppi sopra il tramite marino,
lo mutò, sí che all’esercito grande aprisse ampio cammino.
Ei mortale, soverchiare s’avvisò — stolto consiglio! —
tutti i Numi, e fin Posídone. Di’ se stolto fu mio figlio!
Deh!, la pena ond’io raccolsi tanti beni, non profitti
ad estranie genti, al primo che le mani su vi gitti!
Credere nella guida degli Dei: le profezie
Un bravo “fedele” greco, dunque, credeva davvero agli Dei e non si macchiava di Hybris.
Come era dunque possibile sapere ciò che gli Dei auspicavano per i mortali? Proprio grazie alle profezie, espresse dai grandi oracoli come quello di Delfi, dedicato ad Apollo, o quelli di Olimpia e Dodona dedicati a Zeus.
Tanto presenti nella mitologia come nella storia, gli Oracoli parlavano per gli Dei dopo aver seguito precisi e scrupolosi rituali, che comprendevano di norma un sacrificio.
La gente vi accorreva da tutto il mediterraneo per conoscere il loro volere, al punto che persino nella società greca, divisa e costellata in una miriade di città, i santuari più importanti erano considerati di tutti i greci, o “panellenici“.
L’hybris contro la politica e la filosofia di Atene
Proprio come Sparta, anche per la rivale storica Atene l’empietà dell’Hybris poteva arrivare a cambiare il corso della storia.
Sgominato il pericolo dei persiani infatti Atene puntava al dominio sul Mediterraneo: era l’era della Guerra del Peloponneso fra Atene e Sparta e l’epoca di Alcibiade, un giovane controverso ma brillante, grande stratega militare, allievo di Socrate. Alcibiade aveva ideato un piano arguto, che passava per la sottomissione della Sicilia attraverso l’assedio di Siracusa.
Nata proprio come colonia greca, la città sicula aveva il dominio sull’isola e godeva delle sue risorse e della sua posizione predominante sul mediterraneo. Sconfiggerla avrebbe permesso agli ateniesi di impossessarsi di tutto questo eliminando al tempo stesso una realtà che guardava amichevolmente alla rivale Sparta.
Proprio la notte prima della partenza della flotta, però, avvenne uno scandalo tanto grave da condannare l’esito della spedizione. Nelle vie di Atene erano comuni le Erme, dei pilastri col busto del dio Ermes, protettore delle strade. Per propiziare la fertilità, tali statue erano a volte realizzate con falli sporgenti che furono mutilati da ignoti vandali.
Per i devotissimi ateniesi fu un vero sacrilegio, nonchè un infausto presagio per la spedizione. I sospetti si rivolsero ben presto contro una categoria già spesso accusata di empietà: i filosofi, e le èlite sociali che li ascoltavano.
Alla fine, lo stesso Alcibiade fu incolpato di essere fra i colpevoli e temendo il peggio fu costretto a fuggire, rifugiandosi -ironia della sorte- prima a Sparta e poi in Persia.
L’esito della spedizione contro Siracusa fu talmente disastroso da innescare gli eventi che avrebbero portato Sparta a vincere la Guerra del Peloponneso.
Quindi i greci credevano davvero agli Dei?
Per rispondere alla domanda iniziale, quindi, i greci a modo loro credevano davvero agli Dei, e molto. Il punto è che, appunto, si trattava di un modo diverso di intendere la parola “credere”.
E’ di certo indubbio che per un greco sarebbe stato un atto terribile non mostrare gratitudine agli Dei, e che chiunque avesse la presunzione di offenderli, macchiandosi di Hybris, l’avrebbe presto o tardi pagata molto cara.
Infatti, le morti famose dovute ad accuse di empietà sono innumerevoli nel mondo greco, ma una le batte senza dubbio tutte: si tratta proprio del grande filosofo Socrate.
Molti Ateniesi temevano che gli insegnamenti di Socrate portassero i giovani alla corruzione e all’ateismo e il fatto che Alcibiade fosse stato suo allievo non gli fu d’aiuto: nel 399 a.C fu condannato a morte e ucciso costringendolo a bere una tazza di cicuta velenosa.
Oggi il suo pensiero ci è noto solo tramite le opere del suo allievo più famoso, Platone, che riporta le ultime parole del filosofo:
E ormai intorno al basso ventre era quasi tutto freddo; ed egli si scoprì – perché s’era coperto – e disse, e fu l’ultima volta che udimmo la sua voce: «O Critone, noi siamo debitori di un gallo ad Asclepio: dateglielo e non dimenticatevene!
Platone, Fedone, 118a
Sulle vere intenzioni di Socrate con queste ultime parole da allora si dibatte, ma quel che è certo, è che persino lui, condannato a morte per empietà, concluderà la sua vita ringraziando e onorando un Dio.